Cosa vuol dire andare in pensione con centinaia di giorni di ferie non godute? Lo sanno molto bene i medici  italiani che, a causa della ormai cronica carenza di personale, a cui seguono inevitabili problematiche  organizzative, non riescono ad andare in ferie anche se ne fanno esplicita richiesta. Secondo un sondaggio  di Anaao-Assomed, sono più di 5 milioni i giorni di ferie accumulati negli anni dalla classe medica. In  particolare, in area medica il 15% degli intervistati ha più di 120 giorni di ferie arretrate, in area chirurgica il  14,8%, in area servizi e in dirigenza sanitaria il 6,5%. A i 5 cinque milioni vanno inoltre aggiunti anche tutti i  giorni di ferie che i sanitari, entrati in pensione o comunque non più in rapporto lavorativo con la pubblica  amministrazione negli ultimi 10 anni, hanno dovuto “lasciare sul campo”. Il tema della mancanza di professionisti sanitari è stato sollevato anche nel corso di un recente Question  time alla Camera, in cui il Ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha ricordato di aver istituito, proprio a  ridosso dell’inizio del suo mandato, «un apposito gruppo di lavoro con l’obiettivo di affrontare la questione  della carenza del personale sanitario e il conseguente ricorso da parte delle aziende sanitarie ad  affidamenti esterni. I temi che si stanno approfondendo costituiranno i contenuti di nuove proposte  normative, che intendo adottare prima dell’inizio dell’estate». Un problema enorme, dunque, che a sua volta ne genera altri: dai rischi per la tenuta fisica e mentale dei  professionisti (che si traducono in possibile burnout e in casi di malpractice causati dallo stress a cui  vengono quotidianamente sottoposti) allo spostamento in reparti di emergenza-urgenza di professionisti  non idonei alle mansioni richieste (ad esempio, oculisti che vengono spostati in Pronto soccorso). Ma non  va messo in secondo piano anche un problema di tipo economico che riguarda sia il professionista che  l’Azienda. Ciò accade perché queste ultime sono solite negare ai dipendenti la monetizzazione delle ferie  non godute al momento della cessazione del rapporto lavorativo. Ma cosa dice, in questo senso, la  giurisprudenza, e cosa può fare un professionista per vedersi riconosciuto il giusto indennizzo per le ferie  non godute? Approfondiamo l’argomento con l’avvocato Francesco Del Rio (Consulcesi & Partners). «Sempre più spesso – spiega l’avvocato Del Rio – i dipendenti sanitari, in particolar modo quelli  appartenenti alla categoria medica, non riescono ad andare in ferie anche se lo richiedono. Può dunque  accadere che, una volta entrato in quiescenza o dimessosi da un’amministrazione pubblica, perché magari  passato all’attività libero-professionale, e dunque una volta cessato il rapporto di lavoro con la struttura, un  professionista chieda alla stessa la liquidazione delle ferie non godute. E di solito, a questo punto, riceve  inesorabilmente un fermo diniego motivato, succintamente, con il divieto imposto dalla legge di procedere  al riconoscimento di indennizzi economico a titolo di ferie non godute». La Direttiva 2003/88/CE, che regolamenta gli orari di lavoro nel settore pubblico, sancisce che «ogni  dipendente ha diritto a un periodo di ferie annuali retribuite e non rinunciabile e che è vietata la  monetizzazione delle ferie fino al momento della cessazione del rapporto lavorativo. E ciò ha senso in  quanto serve a impedire al datore di usare questo strumento per far lavorare di più i dipendenti,  spingendoli a rinunciare alle ferie in cambio di denaro. In Italia, però, abbiamo dato un’interpretazione  parzialmente diversa: è vietata la monetizzazione delle ferie, punto. Questo è un principio che però  contrasta con la normativa comunitaria». La Corte di Giustizia Europea «ha infatti più volte affermato che l’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE va  interpretato nel senso che contrasta con una normativa nazionale che preveda il mancato riconoscimento  dell’indennizzo per le ferie di cui il lavoratore non abbia potuto usufruire per causa a lui non imputabile  prima della data della cessazione del rapporto. Questo significa che il dipendente non solo non può perdere  il diritto a fruire delle ferie pregresse, ma soprattutto permane il suo diritto a vedersele monetizzate dopo  la cessazione del rapporto di lavoro». È dunque il datore di lavoro a dover dimostrare di «aver adottato tutte le misure idonee a consentire al  lavoratore di esercitare concretamente il suo diritto, informandolo allo stesso tempo che la mancata  fruizione potrebbe comportare la perdita dell’indennizzo: se il lavoratore ha, nonostante tutto, rinunciato  volontariamente e consapevolmente, allora (e solo allora) perderà la possibilità di essere indennizzato, ma  se ciò non accade è possibile attivarsi nei confronti dell’Azienda sanitaria per richiedere il pagamento  dell’indennità per i giorni di ferie accumulati negli anni nella misura pari alla retribuzione lorda per ogni  giorno non goduto, oltre ai riflessi previdenziali». C’è poi da aggiungere che «la prescrizione del diritto all’indennizzo è decennale e decorre dal giorno in cui è  cessato il rapporto di lavoro, per cui ancor più rilevante potrebbe essere il numero di coloro che potrebbero  utilmente richiedere il pagamento dell’indennizzo per le ferie di cui non hanno potuto godere nella loro  carriera lavorativa». «Mediamente – spiega l’avvocato Del Rio –, le richieste che riceviamo si aggirano fra gli 80 ai 200 giorni di  ferie non godute. Stiamo però trattando il caso di un professionista che è arrivato addirittura a 450 giorni: circa 18 mesi di ferie accumulate, ovvero un anno e mezzo. Parliamo dunque di un indennizzo che potrebbe  arrivare a 117mila euro, con riflessi in termini contributivi». Di recente, inoltre, i legali di Consulcesi & Partners hanno ottenuto sentenze favorevoli da diversi Tribunali  (Roma, Modena, Macerata, Siena e altri) che hanno visto la condanna delle Aziende a pagare, in favore dei  sanitari assistiti, fino a 56mila euro, oltre al rimborso delle spese legali. «L’ultima in ordine di tempo è  quella della Sezione Lavoro del Tribunale di Chieti – spiega ancora l’avvocato del Rio –, la quale ha accolto la  domanda del ricorrente e ha liquidato una somma superiore ai 42mila euro. Il sanitario aveva reclamato il  pagamento dell’indennizzo per le ferie arretrate e si era visto opporre un deciso rifiuto dell’Azienda con la  motivazione che, trattandosi di ruolo dirigenziale apicale, non necessitava di alcuna autorizzazione per fruire dei riposi, in quanto poteva attribuirseli in totale autonomia. Il Tribunale non ha neppure dato corso  alla fase istruttoria e in pochi mesi ha risolto la contesa accogliendo integralmente la richiesta del  professionista».